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Guida a "Note per un collasso mentale"

di Antonio Caronia , 23 dicembre 2011

 

Come si fa a portare Ballard a teatro? E perché portarlo a teatro? Il Ballard più terremotante e insicuro che ci sia, poi, quello degli anni 1960, quello della sua fase più delirante e provocante, quello di The Atrocity Exhibition. Ammesso che ci siano delle ragioni per rileggere questo Ballard a quarant’anni di distanza, bisogna vedere poi perché tradurlo in movimenti di corpi dal vivo, in musica dal vivo, in video, in una scelta di parole (di Ballard) tessute dentro quei suoni, quei video, quei movimenti. Sono due problemi diversi, evidentemente, ma collegati.

 

The Atrocity Exhibition va letto (o riletto) e amato, perché è uno dei documenti più spaventosi e lucidi (e dunque belli) del breve e intenso momento in cui la nostra vita di ipermoderni o tardomoderni (o postmoderni, se vi piace di più questo insulso termine) cominciò: gli anni 1960. Che siate nati in quegli anni o poco dopo, che aveste già vent’anni a quell’epoca o che li abbiate adesso, quegli anni vi riguardano. Sono la vostra data di nascita immaginaria, e quindi tanto più reale, quella in cui avete cessato di essere dei soggetti “moderni” o non lo siete mai stati, quella in cui siete sfuggiti a Joyce e a Picasso, al cinema visto su un grande schermo dentro una sala buia e alla drogheria sotto casa del signor Davide, alla grande fabbrica e al “territorio”, per entrare in un mondo tutto diverso. Il mondo della produzione just in time, del lavoro precario, dell’immaginario come forza produttiva, del rifiuto della politica, della tecnologia sotto la pelle, della nuova religione della comunicazione e della nuova categoria filosofico-scientifica della “informazione”. Se molto di tutto questo (o anche la sua totalità) è venuto dieci, venti, trent’anni dopo, negli anni 1960 era già in incubazione. E lo era perché si era definitivamente conclusa la seconda guerra mondiale; e le sue inenarrabili atrocità, da Auschwitz alla bomba di Hiroshima, potevano finalmente produrre le loro repliche farsesche (anche se altrettanto disgustose e perturbanti): l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, il suicidio di Marilyn Monroe, il primo disastro dell’Apollo. L’insensatezza della storia era finalmente sotto gli occhi di tutti, non era più solo l’incubo privato di James Joyce. Ballard lesse tutto questo per noi, e ci donò la sagra più acida e inquietante della desoggettivazione tardomoderna. In anticipo di qualche decennio sulla storia. Poté farlo grazie a un’acutissima sensibilità, a un’infanzia dolce e agiata sotto le ali del colonialismo seguita da un’adolescenza coatta ma protetta in un campo di concentramento, a un incontro con una cultura che parlava la sua lingua ma gli era incomprensibile, alla moderata esaltazione per i crazy years (gli anni 1960, appunto) acremente e prematuramente infranta dalla morte della moglie. Poté farlo grazie alla sottile inquietudine che lo accompagnò per tutta la vita, allo sguardo mobile e sornione che quell’inquietudine gli regalava, a una tempra morale saldissima. Non si sopravvive più di cinquant’anni a Shepperton se non si dispone di un armamentario di questo genere.

Così io leggo La mostra delle atrocità. Si accettano dissensi e critiche, naturalmente.

 

Tradurre Ballard in immagini è un’operazione rischiosa – più che per altri autori. Il rischio maggiore è la banalizzazione, il didascalismo, il commento pedissequo. Se ogni scrittura (forse) è la traduzione in parole (evocative o descrittive, epiche o liriche, stranianti o quotidiane) delle immagini che si sono depositate nel ricordo dello scrittore e della loro successiva elaborazione mentale, ci sono autori in cui questa fonte immaginaria della parola è raddoppiata, triplicata o peggio, è stratificata in un sistema complesso, in cui i diversi piani di immagini verbalizzate comunicano tra loro per traiettore oblique, per sentieri dissimulati, costellati di trappole e di falsi percorsi. Ballard è un autore di questo tipo. Fra i suoi testi, La mostra delle atrocità è quello in cui questa stratificazione è più complessa, affascinante e ingannevole. Sono almeno tre (ma forse di più) i piani nei quali è organizzato il sistema di immagini verbalizzate di questi condensed novels. C’è il piano (presunto realistico) della quotidianità dell’ambiguo istituto retto dal dottor Nathan, con le sue aule, i suoi anfiteatri, le figure di medici/analisti, studenti/pazienti, infermiere/amanti, e i loro movimenti stereotipati o imprevisti. Poi c’è un piano di immagini “esterne” (il poligono di tiro, le spiagge sabbiose, gli svincoli autostradali, le distese di cemento, le camere spoglie), location che rappresentano il teatro di azione privilegiato di Travis/Trabert/Tallis/Talbert per i suoi vagabondaggi, le sue evoluzioni sessuali con la signora Travis, con Catherine Austin, Karen Novotny e così via, i suoi ripetuti assassini rituali della moglie. Paradossalmente, queste immagini altrettanto quotidiane, ma rese straniate dalle ambigue e ossessive intenzioni di Travis, sono quanto di più vicino alle tradizionali “immagini fantascientifiche” si possa trovare nella Mostra delle atrocità. Immagini quotidiane trasfigurate, verfremdet, trasformate in fantascienza da pure relazioni semiotiche, come le vie e le camere d’albergo di Parigi che diventano le strade e gli edifici di un lontano pianeta in Alphaville di Godard. In ultimo, c’è il piano delle immagini che sono diretta proiezione dell’immaginario psichico: minuziosamente descritte (come i kit di objects trouvées costruiti da Travis) o nascoste, e rivelate solo nelle note (come i dipinti di Marx Ernst, Salvador Dalì e altri). Sono queste la proiezione più evidente della psiche di Travis: oggettivazioni paranoiche, tracce concrete e sapienti del suo processo di desoggettivazione. I legami fra questi tre piani di immagini Ballard li costruisce prevalentemente sul terreno del sesso, come quando (operazione altrimenti astrusa e incomprensibile) fa della geometria delle stanze o delle automobili un elemento dell’atto sessuale: “L’atto sessuale che consumarono diventò la frettolosa eucarestia delle dimensioni angolari dell’appartamento.”

 

Iconizzare tutti e tre (o anche solo due, o uno) di questi mondi di immagini sarebbe stata la scelta più facile, ma anche la più disastrosa, per uno spettacolo teatrale. Giuseppe Isgrò, con Note per un collasso mentale, non è caduto in questa trappola. Lo spettacolo di PhoebeZeitgeist decide di giocare le parole di Ballard, rimontate ma trascritte fedelmente, dentro e contro i movimenti degli attori, rinunciando radicalmente a “illustrarle”, o a costruirne lambiccati e inevitabilmente deludenti equivalenti visivi. La parola ballardiana risuona tanto più cristallina e radicale quanto più è affidata a un registro recitativo risolutamente antirealistico, fatto di falsetti e di dichiarativi, di scarti e di differenze. Questa scelta coraggiosamente brechtiana, che sfugge al didascalismo proprio perché trasforma il corpo degli attori in didascalia (ma una didascalia anch’essa fuorviante, o straniata), è uno dei pregi maggiori dello spettacolo, costruito su un esemplare lavoro di Andrea Barettoni e Francesca Frigoli, che sfacciatamente non nascondono la fatica fisica e vocale, l’artificiosità delle torsioni e delle coreografie, ma fanno di tutto questo uno strumento espressivo sapiente e spensieratamente tagliente. Lo spettacolo non sfugge alla sfida di portare direttamente in scena il sesso, introducendolo anche là dove il testo non lo prevedeva. Il pezzo di bravura costituito dal coito davanti al pubblico, mentre Barettoni dipana i 16 elementi del kit “Karen Novotny”, costituisce (su questo piano) forse il clou dello spettacolo.

Rinuncia, dunque, a qualsiasi traduzione visiva degli ambienti, per lasciare il campo allo scontro fra il testo e i corpi degli attori. Isgrò ha tolto coraggiosamente dove c’era da togliere, e ha aggiunto dove (obliquamente) ci suggerisce ci sia da aggiungere. In questo senso una delle invenzioni più felici di Note per un collasso mentale sono le maschere di Giovanni De Francesco, aguzze architetture di capelli che nascondono il viso degli attori, ne filtrano subdolamente la voce, e inevitabilmente suggeriscono (in modo acutamente ballardiano) che il soggetto non sia descrivibile altro che come assenza. Nessuna “persistenza dell’immagine” può impedire allo spettatore di pensare che sotto quelle maschere liquide e ieratiche, una volta indossate, non ci sia che il vuoto. Su un piano opposto e complementare si muovono i visual di Francesca Cianniello, frammenti di sesso domestico e amatoriale pescati dalla rete in cui the real thing, l’organo sessuale nella sua crudezza, buca a tratti, improvviso, gli strati di mascheramento dell’editing digitale per ricordarci “di che cosa parliamo quando parliamo di...”. Neanche Internet c’era, ai tempi di Ballard: ma quale ambiente è più disperatamente ballardiano di Internet, oggi?

 

E tuttavia, tutti questi elementi sarebbero stati certo sufficienti a fare di Note per un collasso mentaleuno spettacolo ben costruito e affascinante (nella sua “sgradevolezza”), una rilettura di Ballard insieme aderente e straniante, ma non lo spettacolo sorprendente ed emotivamente intenso che è. L’elemento che lo rende tale è l’aggiunta più semplice e insieme più estranea a Ballard che ci sia: la musica, e il modo (di nuovo) semplice e insieme rigoroso con cui Isgrò l’ha voluta inserire nello spettacolo. Perché altrimenti il sottotitolo dello spettacolo sarebbe “Partitura”? Non pensate che la presenza in scena di Alessandra Novaga, con le sue due chitarre alternativamente blandite dolcemente dalle sue dita e oltraggiosamente tormentate dal suo archetto sia un “di più”. Non c’è nulla di esornativo o di superfluo nella sua presenza. Novaga è il contrappunto discreto e silenzioso alle contorsioni dei due attori, alla corposità dei video, al divertente e tragico spessore delle parole. È un equivalente visibile della voce incorporea di Ballard, che si insinua nelle nostre orecchie con le avvolgenti ma impeccabili registrazioni di Nicola Stravalaci. È la sapiente e ferrea regia dello spettacolo proiettata in scena. Sembra un’isola di saggezza in un mondo di folli. Ci promette la restituzione del soggetto cartesiano là dove impera la decostruzione più selvaggia e dionisiaca. E naturalmente, a ogni passaggio delude le nostre aspirazioni all’ordine e alla tranquillità. Ci ricorda che la musica, comunque imbrigliata e sistematizzata, non può mai sfuggire alla sua origine selvaggia e dionisiaca. Lo fa anche con la complicità e con la precisione tecnica ed espressiva dei live electronis di Giovanni Isgrò. Soltanto la mente contorta di un folletto ambizioso e disperato poteva concepire l’idea di affidare alla musica, al suo potere insieme calmante ed eccitante, la funzione di scheletro, di struttura portante dello spettacolo; e insieme di permetterle di esercitare, nel modo più coperto e distruttivo, il suo compito di scatenatrice delle più tettoniche emozioni. A me pare che Alessandra Novaga sia l’invenzione più rischiosa e più bella di tutto questo spettacolo. Sulla scena, la sua espressione controllata e arguta, da cui sembra emanare la sua musica, è l’incarnazione più precisa e felice di una presenza di Ballard non più in absentia, ma in praesentia. Sulla scena, Alessandra Novaga è James Ballard.

 

Così io leggo Note per un collasso mentale. Si accettano dissensi e critiche, ma naturalmente, per discuterne con me dovrete prima aver visto lo spettacolo.

 

 

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